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Albo d'oro
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Categoria NARRATIVA - 1 ° classificata

“Coriandoli di vita – Scampoli di Cielo” - Natalia Fagioli

Del nonno Danesi si è sempre favoleggiato che, dopo essersela caricata sulle spalle, avesse rapito la propria futura moglie, facendole attraversare ben sette fiumi, per portarla a casa sua.
La pronipote ne osservava a lungo la foto in bianco e nero: il volto era inciso da solchi profondi e sembrava un mattone cotto al sole, i capelli bianchi dal taglio pari, dritti e grossi, gli arrivavano alle spalle, lo sguardo era fiero, per niente accattivante, e le mani appoggiate alla curvatura del bastone da passeggio ricordavano rami nodosi.
Era la foto più bella dell’album e la bambina ne era insieme attratta e spaventata.
A casa della Lia, una villetta di Madonna delle Rose, ancora negli anni sessanta del ventesimo secolo, si era convinti che da qualche parte si potessero trovare la camicia rossa e i pantaloni turchini del bisnonno, “una testa calda”, si diceva con invidia ed ammirazione insieme, che aveva seguito Garibaldi nella spedizione dei Mille. Ma setacciando tutta la cantina, in un angolo del sottoscale, si trovò solo un velocipede.
La nonna Filoma non portava le mutande e orinava stando ferma-ferma sui piedi leggermente distanziati. Solo quando le cadde anche l’ultimo dente decise che era ora di passare al pancotto, ma rimpianse sempre il “lavoro” che faceva “con quel dente”.
Per la nonna Filoma (che in realtà era la bisnonna Filomena e che teneva le chiavi della dispensa) il bottiglione dell’olio era fatto per durare un mese e… durava un mese. Di lei che condiva, in casa dicevano: “Passa a fare un segno di croce sulla ciotola dei radicchi!”.
La Galesa vecchia era sorda come una campana ma la domenica pomeriggio andava alla Benedizione per ascoltare la predica. Alla fine, si alzava fra le ultime e diceva del predicatore: “Cum l’ha pradghè ben!” (Come ha predicato bene!). Ma la nonna Filoma la smascherava: “Se la sl’è durmida tota!”
La povera Galesa vecchia, così chiamata per distinguerla dalla nuora che era la nonna giovane, nell’ansia di partecipare al matrimonio della nipote, in programma di lì a due giorni, durante il ritorno a casa ingoiò tute le pastiglie che il dottore le aveva ordinato di prendere nei successivi quattro o cinque giorni.
Morì durante la notte.
Il vecchio Galès era goloso di passerotti che freddava con la doppietta. Per non avere rivali a tavola, durante la cottura aggiungeva di nascosto quantità industriali di pepe, che a lui piaceva molto, così, di fatto, rimaneva l’unico commensale.
“E Gnaf”, il nonno della nonna Pia, così chiamato per la forma schiacciata del naso, tornò a casa dalle votazioni brontolando: “I l’aveva da di’ sui n’era ona sol!” bofonchiò riferendosi alla scheda o meglio, all’unica possibilità di voto che gli era stata offerta. Si era nel ventennio.
Il nonno Tugnin faceva giocare la nipotina con i ciottoli di ghiaia, sotto il grande noce, vicino al pozzo. Poi stringendole la manina, diceva “Cuntrat!... Cuntrat!”, alla maniera dei sensali.
Recatosi in città col figlio adolescente e finalmente comprati i finimenti nuovi per la cavalla, Tugnin gli raccomandò di non dire niente alla nonna Filoma, quando fossero tornati a casa.
Dopo aver venduto il bel podere vicino alla Scuola Agraria, il nonno non impegnò subito il ricavato in un altro acquisto; ma con la guerra e l’inflazione rimase con un pugno di mosche e cominciò a frequentare sempre più spesso la cantina.
“Mangia le briciole”, diceva nonno Tugnin ai nipoti “se no, te le faranno raccogliere all’inferno con un forcale spuntato!”.
Nonno Tugnin aveva tre sorelle più grandi che gli sopravvissero e che erano per tutti la zia Rosa, la zia Mora e la zia Marcella. La zia Mora era la più dolce ed affabile, la zia Marcella la più autorevole, la zia Rosa, senza figli, la più minuta e grinzosa… la più “moderna” nella personalità e nel carattere.
La nonna Isolina morì di Spagnola nel ’18, a 32 anni. In casa dicevano sempre che la Spagnola si era portata via tutte le spose più belle, quelle più vigorose. Il nonno Giovanni, il suo figlio più piccolo, aveva appena tre anni e della madre conservò vivo il ricordo per tutto il tempo che visse, pur grato alle zie e alla nonna Filoma che lo avevano “tirato” su.
Della nonna Isolina, il nonno Giovanni conservava come una reliquia la treccia dei capelli e la mostrava ai suoi figli piccoli. Quella treccia di capelli scuri e robusti, insieme alla foto coi tre figli fatta per essere mandata al fronte, al marito Tugnin, erano ciò che di tangibile gli restava di una madre persa troppo presto.
Grande amante del pesce fritto, la nonna Olimpia, seconda moglie di Tugnin, se ne riempiva le tasche e lo gustava con appetito tra un colpo e l’altro di zappa. “I’è cme i grasul!” andava ripetendo.
“Comprati un bel paio di pantofoline rosse!”, diceva Olimpia alla nipote, ma per sè aveva sempre portato, tranne la domenica, scarpe di straccio che si confezionava da sola su una vecchia forma pesante.
Quando Olimpia le mostrò il proprio “ritratto”, come diceva lei, ossia la sua unica foto da ragazza, la nipote si meravigliò che la nonna fosse stata così bella.
Intervistata dalla nipote che giocava a fare inchieste e le chiedeva cosa ricordasse della propria infanzia, la nonna Olimpia rispose… “la fame”. Era la fine degli anni sessanta e la nonna aveva circa ottant’anni.
Sempre lei, a nove anni, era stata messa a servizio presso una famiglia di contadini. Perchè arrivasse a fare la sfoglia sul tagliere, le diedero un panchetto, su quale salì in piedi. Poi a dodici anni, quando a Cesena aprirono l’Arrigoni, entrò in fabbrica. La nipote lo raccontava sempre ai propri scolari increduli, negli anni ottanta e novanta.
Invece nei primi anni settanta, la nonna Olimpia, operata di cataratta ad un occhio, aveva detto che piuttosto che operarsi anche nell’altro, avrebbe preferito morire: era stato troppo doloroso. L’intervento non era avvenuto in anestesia?
La nonna Rosina era una vecchina minuscola, ripiegata su se stessa. Con la corona tra le mani diceva perennemente il rosario. Insisteva spesso perché il nipote facesse il chierichetto. Di lei la figlia diceva: “La s’è ardota un por gavagnin”.
Sempre lei, criticava le figlie perché si lavavano “sempre” i capelli. “Me a degh ch’a vi spurchè”. Lei non se li era mai lavati; si puliva la testa con la “pettinina” e com’era pulita! Era vero.
Quando poi la zia Claudia si tagliò i capelli alla “garçone”, e Gnaf, suo nonno, l’accolse con un “t’am per una pigura” (sembri una pecora) e rivolta alla nuora, la nonna Rosina: “S’am vliva fè un dispèt…”. Erano gli anni trenta.
La zia Rosa e lo zio Eugenio tenevano la “pettorina” del baccalà appesa in cucina vicino al camino. Ogni tanto ne tagliavano un pezzo e, una volta finita, la ricompravano, quando andavano in città.
La nonna della Lia, che aveva insegnato come maestra per quarant’anni, nelle pluriclassi, anche a cinquanta o addirittura sessanta bambini alla volta, non accettava che la nuova donna di servizio della figlia la chiamasse “nonna”. “A me, i m’ha sempar ciamè Sgnora Maestra!”
Quando vedeva la nipote discutere animatamente con il fidanzato, lei, sorda, si avvicinava all’orecchio di qualche amica presente e chiedeva sottovoce: “Csa fai? … I ragna?”
Beppone, taglialegna in quel di Balze, tornava dalla macchia portando ogni sera sulla spalle un grosso ciocco per l’inverno. Dopo cena mandava la figlia all’osteria a comprare “per lui” un quartino di vino, “d’ quello bono! Di’ che l’è per tu babbo!”.
Gioti aveva ormai cinquant’anni e viveva con la cognata che mostrava di temere come un bambino una madre molto severa e chiamava “la donna”. “La dona l’am leva!” si lamentava col vicinato, ma in tutto il Campino nessuno sembrava voler correre in suo aiuto. Gioti era anche un po’ ingenuo, ma sincero e quando la zia Marcella, a cui era scomparsa una coniglia, per tastare il terreno, gli chiese se l’avesse vista, “Gioti, t’an e vest la mi cuneja?”, lui, tutto contento di essere per una volta più informato degli altri, rispose: “U l’ha ciapeda la dona; la è in tla cantena cla magna e brocal!”
Era uno spasso vedere la zia Norma che per il gran ridere doveva asciugarsi col fazzolettino da naso copiosi e allegri lacrimoni: ricordava quella volta che si dovevano andare a prendere le corone di fiori per il funerale di Berto e si pensò di mandare quel povero bravo figliolo di Gioti. Quando si fece ora di partire col morto, Gioti, col barroccino e la mula, non era ancora tornato e alla fine, aspetta e spera, si dovette fare senza fiori. Gioti fu trovato la sera dopo, vicino a Bellaria, seduto sul carretto, che piangeva. Delle corone di fiori erano rimasti solo i bastoni.
“Ades al zira nenca ad nota!” (Adesso girano anche di notte), così la quasi ottantenne zia Rosa al marito che le aveva appena ricordato: “Te da stè a ca! Al doni an zira ‘d sera!” (Tu devi stare a casa! Le donne non girano di sera!).
Rimasta vedova ed ospitata a turno dai nipoti e pronipoti, la zia Rosa, più o meno ottuagenaria, vide per la prima volta la televisione. China sui gomiti appoggiati alla tavola, muoveva ritmicamente i fianchi e il sedere, non appena sentiva una musica che le piaceva. Quando la portarono al mare, che vedeva, anche quello, per la prima volta, la zia Rosa si lasciò fotografare seduta sulla sabbia, con il suo grembiule nero a pois bianchi e sugli occhi un paio di occhialoni tondi da sole, stile beat.
Davanti al telegiornale in bianco e nero, dove una “braghira” diceva e diceva, la zia Rosa quando riusciva a catturare l’attenzione dei pronipoti, chiedeva: “Cosa dicono? L’aumentano… la pensione?”.
Abituata a considerare il riposo un comportamento da vagabondi ed il sonno un affare da pigri, zia Rosa, quando si risvegliava dal pisolino davanti alla TV, dichiarava solennemente, davanti ai nipoti: “Non dormivo mica!”.
Durante la guerra, lo dicevano in molti, Ciafi si era improvvisato beccaio, cuoco e “difensore civico” dei numerosi sfollati rifugiatisi in campagna da nonno Tugnin. Grazie alla sua mole massiccia, al suo coraggio (o alla sua incoscienza) ed al suo spirito di iniziativa, in via Ancona 52 non si era patita quasi mai la fame. Se si sapeva di una pecora o una mucca finite da una bomba, Ciafi accorreva, scuoiava, squartava, poi cucinava e serviva. Era capace di parlare tutte le lingue e riusciva a capirsi con tutte le divise. Non aveva paura di niente e di nessuno. Dicevano di lui: “Quando c’è Ciafi, mi sento addosso un coraggio… anch’io!”.
Con la sua prosopopea, riusciva ad ottenere quello che voleva (le ciliegie, un uovo fresco, persino un bottiglione di vino per la festa di Carnevale) anche dalla nonna Filoma. Arrivava allegro e vociante e cominciava a farle una gran festa “la nonna di qua, la nonna di là”, si mostrava servizievole, educato, che sapeva il fatto suo. Con la Filoma un feeling eccezionale: Boris del Campino anche per lei era irresistibile!
Piraja era un uomo molto forte.
Quando andò a chiedere in prestito l’aratro di ferro al suo vicino che abitava a circa un chilometro e mezzo di distanza, se lo portò a casa guidando con una mano sola sul manubrio, mentre l’altra reggeva l’aratro penzoloni lungo la bicicletta.
Con moglie e due figlie piccole da tirar su, “Brummel”, un altro del Campino dovette inventarsi un mestiere e si improvvisò antesignano delle vendite “porta a porta”. Chiamò “La bottega con le ruote” un carretto montato su una bici a formare un triciclo, con cui percorreva la prima campagna del Cesenate, cercando di piazzare detersivi e saponette. Reclamizzava soprattutto Cadum “il sapone delle donne belle” passandoselo sulla sua brutta faccia, il talco “Felce Azzurra” di Paglieri, che chiamava semplicemente “L’Azzurro, ecco qua l’Azzurro!” ma il pezzo forte era “Omo, desiderato dalla donna!”.
Col passo successivo, abbandonò detersivi e cosmetici, attrezzò con una sega a motore un carretto, trainato da un’asina ed iniziò a lavorare per conto terzi. Quando i vigili lo fermarono per strada e, girando intorno al suo mezzo, ne constatarono le numerose irregolarità, dissero che dovevano multarlo. Allora Brummel gettò le braccia al collo della sua asina e prorompendo in un pianto dirotto se ne uscì: “Letizia, a sem arvinì!”.
Dopo quasi vent’anni era tornato a trovarli Luiis, il commerciante di frutta che negli anni cinquanta comprava le pesche sull’albero e si recava sul podere con le donne che “lavoravano” alla frutta, destinata al mercato interno e deposta dai contadini direttamente nelle padelle perché non si sciupasse. Poi Luiis caricava le padelle su un camion rosso e nero che metteva in moto facendo girare una manovella sul davanti del cofano: ne usciva del gran fumo nero. Era uno dei tanti vecchi camion lasciati dagli americani.
Della guerra tutti ricordavano i tedeschi, le granate, la fame, la paura e Pippo, l’aereo che passava e ripassava, per bombardare. La zia Norma e la nonna Pia ricordavano anche i bengala e la seta dei bengala con cui si erano fatte la camicetta.
Dopo l’ultima guerra, Gistòn era ancora abilissimo nel fare il barco per tutti i contadini della via Ancona, ma sul suo, invece della croce, a protezione delle messi issava la falce e il martello incrociati. Era il contadino del prete.
Scalza, sotto il sole, guardava la Nora e Primo piangere appoggiati al muro di casa e a lei bambina sembravano due vecchietti così vestiti di nero. Eppure dovevano essere felici, che si sposava la loro figlia ed era così bella vestita di bianco, col velo, da sembrare una nube leggera.
La Nora di Galès passava la domenica pomeriggio di guardia alle sue pesche, all’ombra delle piante, sfogliando Grand Hotel. Si riposava dalle fatiche di una settimana di lavoro. Nell’Anno Santo millenovecentocinquanta fece il viaggio della sua vita: con la parrocchia, si recò a Roma in pellegrinaggio dal Papa, e portò a tutti i bambini, nipoti e vicini di casa, un ricordino: medagliette con le immagini del Papa e di San Pietro, oppure spilline a campana, a cannocchiale o a libricino con… le vedute di Roma.
Dalla mattina alla sera stavano chine a raccogliere fagiolini, ma il giovedì dopo cena, Nora, l’atzdora, e le sue nuore non rinunciavano mai a “Lascia o raddoppia?”. Andavano all’Astra a piedi: almeno quattro km. all’andata e altrettanti al ritorno.
Della zia Norma che non si era mai sposata, la nipote ricorda ancora il gesto amoroso di innaffiare alcuni piccoli vasi davanti a casa con una conchiglia che riempiva d’acqua al pozzo nell’abbeveratoio delle mucche, andando più volte avanti e indietro.
I suoi nipoti possiedono ancora la pianta, nata dai semi del limone che la Dada (alias, la zia Norma) aveva interrato in anni lontanissimi, dopo essersene aromatizzata il tè. Non ricordano però più chi la innestasse. Forse il nonno Giovanni?
Sempre la Norma, sarta da uomo, in piedi davanti al tavolo su cui tagliava e col metro intorno al collo, rifletteva a lungo prendendo ripetutamente le misure con riga e squadra: poi tracciava delle linee col gesso sottile e solo dopo aver fatto lunghi calcoli, prendeva in mano le forbici.
Poiché era brava in matematica, soprattutto in geometria, talvolta riusciva a mettere da parte qualche scampolo di stoffa sufficiente a fare un paio di pantaloncini corti ai nipoti di tre-quattro anni. Si era tra il quarantacinque e il cinquanta, ma già alcune clienti facoltose rifiutavano gli avanzi delle loro stoffe perché tanto “le toppe non gliele mettiamo nei pantaloni dei nostri mariti”.
Con gli avanzi della stoffa double-face del cappotto della signora Cirri, la Dada, su un modellino ritagliato da “Noi Donne”, le confezionò un elefantino di pezza che riempì di segatura. L’interno delle orecchie e la pancia erano a quadrettini bianco e beige, il resto color senape.
La zia Norma teneva sul ripiano della credenza una scatola fatta di tanti quadratini di vetro a specchio che piaceva molto alla nipotina. Aveva dei riflessi! Delle sfaccettature! Ma la regalò alla fidanzata del fratello, che pure ci faceva il filo. Molti anni dopo, in un mercatino di cose vecchie, la nipote ne vide una uguale e venne a sapere che quella scatola era il contenitore di una marca famosa di calze per donne.
Orfana di madre a otto anni, la maggiore di tre fratelli, quasi completamente sorda fin dall’adolescenza e vedova a trentasette, la zia Olga perdette in un incidente anche il figlio maschio di ventitrè anni. Una vita di duro lavoro, pochi mezzi e tanta fatica non le impedivano di accogliere – mentre un sorriso di un’intensità unica le illuminava il viso – amici e parenti, soprattutto i giovani e i bambini, cui non mancava mai di dare qualche dolce.
La vedeva di rado e restò colpita dalla sua carnagione: la zia Peppina, nonostante l’età, aveva un viso fresco e una pelle chiara e senza imperfezioni da fare invidia a una ventenne.
La maestra Casadei per il carnevale della terza elementare, regalò a ciascuna delle sue alunne un ombrellino di carta che si apriva e si chiudeva: ai maschi invece regalò una tromba di cartone. Non aveva avuto figli né nipoti: trattava i suoi scolari come nipoti e a volte li viziava un po’.
Negli anni ’50, la maestra Pasini portava ancora i mutandoni fino alla caviglia, come le donne dell’800. Per questo poteva sdraiarsi sul prato con suoi bambini ed alzare le gambe, senza timore di dare scandalo.
Quando, ed era ancora relativamente giovane, cominciò a tremargli la mano, il nonno Giovanni, non ancora nonno, smise di prendere il caffé al bar e passo a consumare tè al miele che si faceva preparare in casa dalla nonna Pia.
Stendeva la propria mano accanto a quella nel nipotino e diceva ridendo “Ah! La pellaccia del nonno!”.
D’estate, nei mesi in cui si lavorava sodo, ogni mattina appena alzato, il nonno Giovanni buttava giù due uova in quattro dita di marsala. Doveva sviluppare delle calorie, Lui!!!
“Dovrò pure tenermi su” e metteva un altro cucchiaino di zucchero e inzuppava un altro biscotto nella sua tazza di caffelatte. Non si curava più della scia di zucchero che lasciava sulla tovaglia ed aveva la fortuna di non ingrassare.
Il nonno Giovanni che in tutta la sua vita aveva criticato che si abbuffava soprattutto di dolci, e fra i dolci soprattutto di bomboloni, nella tarda vecchiaia divorava una caramella dietro l’altra, appallottolando gli involucri per farli meglio scomparire.
Cercava per tutta la casa il suo coltello per innesti, che gli era stato regalato dal suo amico Renato, morto in Russia. Smaniava, finché non l’aveva trovato e solo allora sembrava contento. Nessuno se la sentiva di ricordargli che il coltello del povero Renato non c’era più da un pezzo e quello che lui aveva trovato ero stato comprato dall’arrotino della Piazza Coperta.
A chi gli chiedeva se stava bene, il nonno Giovanni, seduto sulla sua sedia a rotelle, immancabilmente rispondeva, col tono un po’ burbero di sempre: “Sto bene, perché dovrei stare male?”.
La nonna Pia, classe 1920, raccontava alla figlia di quando era piccola ed amava andare nei campi di grano a raccogliere fiordalisi: “Ne facevo dei mazzi!”.
Da piccola covava i bachi da seta, tenendosi i bozzoli in seno, al caldo, fino a quando non si schiudevano. Per questo il fratello la prendeva in giro chiamandola “la cioza di bighèt” e lei si arrabbiava.
Alla nonna Pia, sua madre, la Rosina, “inspiegabilmente” non aveva mai voluto comprare un bambola, anche piccola, di quelle che vendevano al Monte, il giorno della festa. Diceva tutte le volte: “Prendi piuttosto la finocchiella!… Te la mangi…”.
Ma quando, da bambina che non aveva mai avuto la bambola, diventò a sua volta madre di una figlia in età di giocarci, la nonna Pia si precipitò in bicicletta alla fiera di san Giovanni a comprargliene una, all’alba, perchè dopo doveva raccogliere le pesche. Non fece in tempo a vedere niente della fiera, ma aveva comprato la bambola… ed era felice!…
Sempre lei raccontava che da piccola non mangiava i cioccolatini. Li lasciava tutti a suo fratello; per sé teneva la carta stagnola colorata che conservava con cura.
La nonna raccontava anche di quando le avevano regalato un ragnetto di legno colorato con le zampine a molla, di metallo. Lo aveva messo nel suo cassetto, ma dopo un po’ non lo aveva trovato più. Il fratello più grande le spiegò che il ragnetto se n’era andato da solo perché… “muoveva sempre le zampine!”.
Conosceva un mucchio di erbe commestibili che indicava con il nome volgare, elencando gli usi migliori che se ne potevano fare. Mentre parlava, raccoglieva, così, tornata a casa, potè farsi un’insalata, per sé e per il marito.
Aveva smesso di andare in bicicletta a sessant’anni, optando per uno scooter 50 che guidò fino agli ottanta, anche dopo che fu reso obbligatorio il casco. Quando non glielo revisionarono più, per lei finirono autonomia e libertà.
Dopo la morte del marito, uscì una volta sola per andare a sentire il nipote che suonava insieme al suo cantante preferito della tv locale. Conservava le foto che li ritraeva tutti insieme.
Come già prima il marito, seduta alla finestra, guardava i vicini lavorare nel campo. Non poteva più raggiungerli, ma li osservava costantemente e non le sfuggivano i dettagli.
Per difendersi dal freddo alle mani, la nonna Pia se le avvolgeva con uno scialle scozzese dai toni verde mare e sedeva con la schiena appoggiata al termosifone e la gatta sulle ginocchia. Avrebbe voluto comprare delle galline nuove per sostituire le vecchie che ormai facevano poche uova, ma temeva di non farcela più ormai ad accudirle e curarle. Così rimandò e le sue vecchie galline le sopravvissero.
Dalla finestra guardava crescere nell’orto le piantine dei piselli. Insieme alla vicina ne sgranò alcuni chili che mise in freezer il giorno prima di morire.
A quasi settant’anni, nonno Guido, di mestiere sarto, tornava ad Alfonsine a trovare i clienti con lo stesso Moto B con cui andava a provare gli abiti tanti anni prima. Lo trattenevano sempre a mangiare con loro.
Cuciva al suo bancone da sarto, seduto sullo sgabello e si faceva compagnia con la radio: gli piaceva particolarmente ascoltare la canzone napoletana e le commedie di Eduardo De Filippo.
Per intrattenere il nipotino organizzava “Nonno e nipote show”: strimpellava su un mandolino, mentre il nipote creava il ritmo battendo un cucchiaio di legno contro un coperchio d’acciaio appeso all’attaccapanni. Allora interveniva la nonna, gridando nel tentativo di fermarli: “Si macca!! Si macca!!” E portava in salvo il suo coperchio: è tutto registrato.
In caso del nonno Guido c’erano due nonne Marie: sua madre (per i più piccoli “la nonna che stava sempre a letto”) e sua moglie, la nonna Maria, tout-court. Se c’erano discussioni in casa, il nonno guido consigliava: “Bboni! Bboni” e se ne andava a provare un vestito a qualche cliente.
La nonna che stava sempre a letto possedeva un orciolo dell’800 di ceramica bianca che ripetutamente prometteva alla fidanzata del nipote. Dopo molto tempo, glielo diede effettivamente, ancor più sorprendentemente, divise fra la nipote e la fidanzata del nipote i propri gioielli. Un anello ed un paio di orecchini a buccola.
La nonna Maria cucinava grandi quantità di pasta, che bastavano poi per alcuni giorni. Quando preparava l’insalata di pomodori, doveva lasciarne di interi per il nonno Guido: lui se li tagliava da solo, a metà, e li mangiava dopo averli cosparsi di un po’ di sale. Aveva imparato in Sicilia, dove era di stanza durante la guerra, ad aspettare lo sbarco degli Americani.
Di quell’esperienza, in casa si raccontava di quando fra commilitoni si era tirato a sorte con lo stuzzicadenti per stabilire chi del gruppo sarebbe partito per la Russia. Nessuno degli sfortunati era mai più ritornato.

Quando vedeva la nonna Maria portarsi alla bocca i gusci vuoti delle chiocciole che raccoglieva per terra, pensava alla propria figlia Sara che quando era piccola offriva gusci vuoti di chiocciole da mangiare sui piattini delle bambole.
La nonna Maria ormai non è più in grado di parlare, né di ricordare: guarda soltanto, a volte piange, più spesso sorride, a volte allunga la mano per un contatto.
Quando la nonna Maria, dal fondo della sua sedia a rotelle, allunga la mano nel tentativo di sistemarti la giacca sul davanti o un’abbottonatura qualsiasi, capisci che è Lei: dal suo gesto di sempre, la ritrovi e pensi che forse, sì, ti ha riconosciuto.
La zia Claudia portava tutti e due i nipoti sulla bicicletta come vent’anni prima aveva fatto coi suoi due figli maggiori: diceva di avere di nuovo sui seggiolini Aldo e la Lora ed invece erano Marzio e la Morena, i figli della Lora.
“Non invitatemi, se non mi volete con voi, perché io dico sempre di sì”. Questa era la zia Claudia prima sessantenne, poi settantenne, poi ottantenne quando i figli o i nipoti la invitano a salire in macchina per la gita domenicale.
Al matrimonio della pronipote, la zia Claudia quasi novantenne non volle saltare neppure un brindisi agli sposi! E se ne fecero tanti da mettere a dura prova i bevitori più collaudati.
Per non avere vicini ingombranti con cui discutere, Rosa e Libero comprarono il rudere messo in vendita vicino alla loro abitazione: così poterono continuare a vivere liberi, in santa pace, nei loro monti, nella loro casa isolata, del resto sempre aperta a tutti, da cui era possibile ammirare il firmamento a 360°.
Passando per un saluto veloce ad un parente in una casa di riposo, si fermò a lungo alla vista di due ospiti anziane, ciascuna delle quali spaparazzava e cullava fra le braccia un bambolotto delle dimensioni di un bambino di sette-otto mesi.
Piacciono, alla nipote, le case coloniche romagnole col portico ad archi successivi, di mattoni a vista. Le ricordano la casa di San Vittore, nella campagna cesenate, venduta dal nonno in un affare che poi si rimproverò sempre e che il babbo la portava a vedere dalla strada, quando era bambina, in bicicletta.
Rovistando nel primo cassetto del comò, alla ricerca di una foto da metter sulla lapide della nonna Pia, si trovò tra le mani un involto di carta di giornale con dentro una grossa treccia di capelli scurissimi. Erano i suoi di bambina o quelli della nonna Isolina gelosamente conservati da suo padre che, quand’era piccola, glieli mostrava con un atteggiamento di venerazione per quella madre che aveva perso troppo presto?…

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