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Albo d'oro
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Categoria NARRATIVA - 3 ° classificata

“Le rose di Adelaide ” - Stefano Colnaghi

Non avevo voglia di andare in redazione la mattina che conobbi Adelaide. Sbarcavo il lunario scrivendo articoli di cronaca locale su un quotidiano della provincia. Ero iscritto all’università e l’iscrizione fu la fatica maggiore che sostenni in quel periodo per alimentare la mia carriera di studente pigro.
Era una mattina anonima, di un autunno precoce. Minacciava pioggia, ma nessuno se ne curva. Avevo già pronto il pezzo che avrei dovuto consegnare al giornale, e non avevo voglia di andare in redazione così presto.
Ormai da settimane stavo lavorando ad una storia di speculazioni legate ad uno dei settori più redditizi e meno ricercati, quello funerario. Si erano levati sospetti di intrallazzi poco chiari fra consiglieri comunali, società di pompe funebri, addetti alle tumulazioni, marmisti, infermieri dei reparti di rianimazione e altri personaggi più o meno rilevanti. Gli unici non coinvolti in questo giro di mazzette pareva fossero solo i morti.
Lo stavo rileggendo mentre consumavo una monotona colazione all’unico tavolino che il gestore aveva messo all’esterno.
Lei era arrivata avvolta in un cappotto color cammello, con il collo di pelo e i guanti chiari. In testa aveva un cappello color paglia, dalla forma leggera, quasi fosse da sempre parte della sua testolina canuta. Al braccio teneva una borsetta minima, come minimo era il suo corpo e come minime erano le sue gambe, rametti di vite fasciati da spesse calze di nailon, color frumento.
Il cameriere le disse con poca cortesia che dentro era pieno. Le offrii il mio posto, se non le fosse dispiaciuto sedersi all’aperto in una mattina fredda e umida.
Accettò e io mi alzai, ma la donna pretese, cercando di convincermi con un sorriso dalla dolcezza ancestrale, che rimanessi seduto a farle compagnia.
“A meno che, per un bel giovane come lei, non sia troppo sconveniente farsi vedere a far colazione con una signorina anziana”.
La frase risultò un abile amo al quale rimasi impigliato.
Ordinò un tè caldo, con dei biscotti da pasticceria. Scoprii mesi dopo che in quel bar li avevano buoni, di produzione casalinga. Io proseguivo, rallentato dal torpore della notte insonne, la rilettura del mio pezzo.
La donna affrontò la colazione come fosse un rito antico, imparato a memoria, e curato con religiosa perizia. Aveva movimenti nobili, leggeri e silenziosi, come un passero. M’incuriosiva.
Fingevo di rileggere i due fogli mal scritti, ma in realtà ero preso ad osservarla. Provai fin da subito profondo rispetto e sincera ammirazione nei confronti dell’anziana sconosciuta. Reggeva con incredibile disinvoltura il mio sguardo invadente, che la spiava in ogni movimento.
“Sta studiando?”
“Come?”
“Sta studiando, giovanotto?”
Scoperto a spiarla nell’intimo del rito sacro della colazione, mi sentii in colpa.
“Sono una specie di giornalista. Scrivo qualche articolo per un quotidiano locale.”
Non mi andava di scoprirmi e dirle che ero uno studente in legge, che non studiava affatto e si pagava i vizi scrivendo articoli pagati poco più di un panino e una birra.
“Di che cosa si occupa?”
“Di casse da morto.”
Seguì silenzio, durante il quale tentai di correggere qualche riga. La donna consumò con piccoli morsi, senza far cascare nemmeno una briciola, l’ultimo biscotto.
Si alzò, entrò a pagare e quando uscì mi salutò con un lieve gesto della testa, mentre si infilava i guanti. Io la guardavo allontanarsi leggera, e temevo che il vento d’autunno se la portasse via. Sembrava uno spirito.
Quando entrai a pagare e mi dissero che il conto era già stato saldato, compresi che la donna non era un fantasma. Mi sentii stupido e sconfitto.
La mattina dopo tornai allo stesso bar, ma non la vidi, ci tornai per diversi giorni, con ostinazione. Niente.
Dopo poco più di una decina di giorni arrivò. Io era già seduto, sempre al tavolo esterno, anche se dentro di posto ce n’era. Portava un cappotto scuro, un cappello diverso e i guanti di seta nera. Anche la borsetta era nera. Sul viso aveva una sobria velatura di cipria e le labbra toccate appena dal rossetto. Profumava di lavanda.
“L’aspetto da due settimane.”
Glielo dissi con un sincero tono di rimprovero.
“Oggi avevo voglia di parlare con lei. Perciò sono venuta.”
Mi disse che si chiamava Adelaide e che aveva settantasei anni. Poi, consumando la colazione con la consueta incantevole delicatezza, senza che quasi me ne accorgessi, spostò l’oggetto della conversazione sull’argomento “casse da morto”. Così era chiamata dal mio giornale la rubrica che si occupava degli sviluppi sul caso che stavo seguendo.
Parlava con una padronanza di linguaggio invidiabile. La musicalità della sua voce e delle sua frasi incantava. Era piacevole ascoltarla.
Mi parve che sull’argomento non fosse sprovveduta. Era a conoscenza di alcune situazioni che nemmeno io sapevo, ma era anche altrettanto sibillina, e non riuscivo a comprendere bene quanto potesse esserne al corrente.
Prima che terminasse l’ultimo dei tre biscotti, la anticipai e andai a pagare.
“Mi permetta di fare il cavaliere.”
Le offrii il mio braccio per alzarsi e la invitai per la colazione della mattina successiva.
“No. Ci vedremo il prossimo giovedì.”
Andai in redazione e scrissi il mio pezzo. Ci misi anche qualcosa di quanto ricordavo delle parole di Adelaide. Il direttore lo lesse e mi fece i complimenti. Forse era la prima volta.
Trascorsi la settimana con il prurito dell’attesa di fare colazione con lei. Non dissi niente a nessuno.
Il giovedì ci incontrammo. Si presentò con un altro cappotto. Stavolta era di colore verde bottiglia, i guanti era in tinta e il cappello pure. Aveva sempre il trucco leggero e profumava di gelsomino.
Durante la colazione parlammo di me. Poi m’invitò a fare una passeggiata. Camminando scivolammo di nuovo sull’argomento “casse da morto”. Se ne uscì con nuove curiosità. Io la ascoltavo per il piacere di sentirla parlare, ma cercavo di appuntarmi nella mente le sue parole.
Tornati nella piazza dove c’era il bar dei nostri incontri, ci salutammo.
“Arrivederci giovanotto. Se le va, ci vediamo giovedì.”
“Ci sarò.”
Mi feci dare un notes dal barista e scrissi lì il mio articolo.
Le settimane trascorsero snocciolate l’una dopo l’altra, senza che me ne accorgessi. Tutti i giovedì mi incontravo con Adelaide per la colazione.
Il rituale era sempre lo stesso. Adelaide era una donna nobile, e nella ritualità dei gesti dava sfogo a tutta la sua bellezza. Facevamo colazione, passeggiavamo e lei mi raccontava alcune notizie nuove sul solito argomento. Me le dava misurate, poche per volta, come la mancia che si dà ad un bambino, affinché non la sprechi tutta subito.
Dopo i primi incontri, cominciai a portare con me il notes e la penna, la nostra passeggiata terminava sempre nella piazza. Più volte mi offrii per riaccompagnarla a casa. Rifiutò sempre. Fino a quando la vidi scocciata e non glielo chiesi mai più.
Nel frattempo il caso “casse da morto” assunse dimensioni sempre più importanti, grazie agli articoli, farciti con le curiosità che mi regalava Adelaide, che scrivevo il giovedì e che uscivano sull’edizione del venerdì mattina.
Il mio direttore li firmava a suo nome. Diceva che la faccenda era diventata troppo grossa e io ero troppo giovane. Lo faceva per me, per evitarmi noie.
Ma in realtà lo faceva soltanto per prestigio. Ogni venerdì il nostro giornale triplicava le tirature. Era ormai diventato un appuntamento fisso per tutta la città e la provincia. E lui finiva in tutte le trasmissioni televisive locali.
A me non importava nulla. Scrivevo per pagarmi le serate con gli amici, dicevo. E per giustificare a me stesso la poca voglia di studiare e la tanta voglia di incontrare, a scadenza settimanale, Adelaide.
Frequentandola mi sembrava di maturare. Trascorrere con lei un paio d’ore alla settimana, osservare la nobiltà con cui assaporava la quotidianità, mi aiutarono ad uscire dal guscio di una ormai scaduta adolescenza.
L’inchiesta “casse da morto” intanto s’allargava. Il settimanale apporto di notizie nuove che portavo in redazione fece concentrare le attenzioni sul nostro giornale. Le copie vendute aumentavano e gli investitori diventavano sempre più generosi, ma anche i pezzi grossi coinvolti cominciarono a far sentire le prime pressioni.
Fortunatamente le manie di notorietà del mio direttore mi permisero di rimanere lontano dalle noie.
Ma come poteva Adelaide conoscere così tanti particolari sull’argomento? E perchè li veniva a dire a me, somministrandoli in piccole dosi?
Un giovedì di primavera decisi di uscire allo scoperto. Stavamo passeggiando all’ombra di case con i balconi fioriti. Il profumo di gerani era leggero e delicato. Le chiesi delle spiegazioni.
“Vede giovanotto, io sono una signora anziana e sola. Spesso ho tanta voglia di parlare con qualcuno.”
Aveva un sorriso candido e la voce sincera.
“Se non le va più di accompagnarmi, la capisco. Lei è giovane e avrà molte altre cose da fare. È stato fin troppo gentile con me. Il Signore la benedirà.”
Non dissi nulla.
“Passeggerò da sola, come ho sempre fatto. Parlerò con gli uccelli e con i gatti. Racconterò a loro le mie storie, quando avrò voglia di parlare.”
Oh mio Dio! E se era tutto finto? Se si trattava soltanto dell’abile costruzione della fantasia senile di una donna colta e maledettamente sola?
Il dubbio mi strinse forte la testa e mi si incastrò dentro la gola. Allora l’incontro settimanale aveva un senso. La donna s’inventava la storia nella solitudine della sua casa, me la raccontava, poi aveva un’altra settimana per inventare la continuazione.
Ormai la conoscevo da tempo. Aveva la cultura e l’intelligenza per farlo, e anche la sufficiente dose di coraggio per prendermi in giro per mesi.
Probabilmente le serviva per continuare a sentirsi viva. Si era costruita, con le minuscole mani da principessa d’un altro tempo, uno scopo per gettare in avanti, di settimana in settimana, la sua vita e di tener lontana, una settimana alla volta, la morte.
Cosa dovevo fare? Che diritto avevo di frantumare questo suo mondo di carta pesta? Che figura ci facevo io al giornale, con il direttore?
Non me ne fregava niente, io non avevo nulla da perdere e gli occhi di Adelaide erano troppo profondi per essere traditi. Decisi di continuare ad assecondare quello che poteva essere soltanto il frutto della fantasia di una solitudine senile.
Un giovedì di fine primavera, tiepido e profumato, una volta riaccompagnata Adelaide nella piazza, decisi di seguirla di nascosto.
Entrò nel portone di un’anonima palazzina a due piani. Una costruzione antica, incastonata fra altre nella zona vecchia della città. L’avevo seguita standole sempre a un centinaio di metri di distanza. Si era fermata a comprare il pane, poi era entrata nel negozio di fiori ed era uscita con tre rose rosse.
La guardai sparire nel portone. Poco dopo, ad una ad una, vidi accendersi le luci di tutte e quattro le finestre del secondo piano. Quello era il castello della principessa di un altro tempo.
Dopo alcune settimane, nel pieno del caldo estivo, lo scandalo “casse da morto” portò ai primi arresti. In città non si parlava d’altro. Anche durante le noiose code all’ufficio postale, fra la gente accalcata e il puzzo di gregge che stagnava in quei locali.
Uscivo proprio da lì quel mercoledì che vidi per caso Adelaide. Mi passò poco distante, ma non mi vide.
La seguii a distanza. Entrò dal panettiere, poi dal fiorista ed uscì con le tre rose rosse. Salì in casa.
Me ne stavo andando, quando un’auto anonima si fermò davanti alla palazzina. Il guidatore scese ed aprì la portiera al passeggero.
Un uomo robusto, dai capelli grigi e folti, viso squadrato e mascella rigida, appoggiato ad un bastone pregiato, scese e salutò il guidatore. L’auto ripartì subito. Mi pareva di averlo già visto, ma non mi riusciva di ricordarlo.
Con passi lenti, fiaccati da una vecchiaia poco generosa, si avvicinò al portone e ne fu ingoiato. Pochi istanti dopo le luci delle finestre di Adelaide si accesero. Mi sentii trafiggere alle spalle.
Forse non ero l’unica persona che le colmava il vuoto della solitudine. Forse non ero l’ultimo essere vivente che le era rimasto, e al quale affidava gli ultimi deliri della vecchiaia. Mi montò un senso mal miscelato di rabbia e di delusione.
Entrai in un bar lì vicino, dal quale potevo vedere le finestre di Adelaide e il portone. Mi sforzai di ricordare dove avessi visto la faccia di quell’uomo con la mascella da toro. Cercai di dare un aiuto alla memoria scolando a ritmo regolare un numero incosciente di grappe di vinaccia.
Dopo tre quarti d’ora l’auto anonima tornò. Dal portone sbucò l’uomo e il guidatore scese per aprirgli la portiera. Scomparvero rapidamente.
Le grappe di vinaccia mi avevano fiaccato, ma non m’impedirono di precipitarmi come un animale ferito dentro al portone. Salii le scale e bussai alla porta con il vigore triste di un amante tradito.
Adelaide aprì senza chiedere che ci fosse dall’altra parte della porta. Il suo volto candido non nascondeva nessuno di tutti i suoi anni. Il suo sorriso non tradì alcuna sorpresa. Vestiva una vestaglia di seta blu con il pizzo color oro, ben fatta e antica almeno quanto lei. Profumava di gardenia.
“Si accomodi qui giovanotto. Vado a terminare di cambiarmi e le preparo un caffé.”
E scomparve leggera come un soffio di vento.
Era una casa antica. Alle pareti erano appese litografie ormai ingiallite. Raffiguravano transatlantici. Sui mobili c’era un numero indefinito di fotografie. Tutte in bianco e nero. Erano volti di persone antiche, belle e misteriose, come bello e misterioso è quel passato non troppo lontano per esser dimenticato, né troppo vicino per essere toccato.
C’era anche un dagherrotipo ovale, molto grande. Vi erano impressi un uomo e una donna. Dovevano essere i suoi genitori. Le figure color seppia avevano perso i bordi e le immagini si stavano stemperando, ma lo spirito profondo degli sguardi era ancora forte. Nei loro occhi vidi quelli di Adelaide.
Anche il profumo umido delle pareti e quello delle tende erano antichi, ma le tre rose rosse nel vaso sul tavolino erano fresche. Erano l’unico segno del presente dentro a quel mondo lontano.
Tornò vestita come una dama, reggendo un servizio da caffé d’argento e ceramica dipinta a mano. Sulle tazzine, sulla caffettiera e sulla zuccheriera erano raffigurate scene ottocentesche di caccia.
Mi sentivo ridicolo, appannato dall’alcol e catapultato in un tempo che non era il mio, ma il candore del suo viso innocente mi diede un po’ di conforto.
“Lei è venuto per sapere che fosse quell’uomo che è uscito da casa mia pochi istanti fa?”
“Sinceramente non so perchè mi trovo qui.”
“Beva il caffé e si rilassi. Le racconterò tutto. Ormai è giunto il tempo che lei sappia.”
Mi lasciai sprofondare sul divano di velluto. L’atmosfera ancestrale di quella casa e l’effetto delle grappe di vinaccia mi avevano ovattato il cervello.
“Vede io prima stavo lavorando.”
“Che lavoro può fare una signora nobile come lei?”
“La puttana.”
Lo disse con una delicatezza tale, che quella parola così ruvida e volgare filtrò nelle mie orecchie come la musica di una canzone lontana.
Senza scomporsi un solo istante, mi raccontò la sua vita. Dalla sua nascita in una famiglia borghese, alla passione per la letteratura, per le navi, all’incontro con la donna che le insegnò il mestiere più vecchio del mondo.
Aveva lavorato fino al girono che aveva compiuto quarant’anni. I suoi clienti erano stati soltanto uomini nobili e famosi. Aveva accumulato una cifra che le avrebbe permesso di vivere con dignità fino alla fine dei suoi giorni.
Fra i facoltosi clienti c’era anche lui, l’uomo con la mascella da toro. Si erano conosciuti il giorno prima che si sposasse con la donna che la famiglia aveva scelto per lui. Fu la prima volta che si trovò tra le braccia il corpo nudo di una donna.
S’innamorarono subito l’uno dell’altra, ma non se lo dissero mai. Da quel giorno s’incontravano ogni mercoledì a consumare il loro amore clandestino, fingendo a loro stessi di essere la prostituta e il cliente. Fingendo che il loro amore impossibile non esistesse.
Quando Adelaide decise di smettere, escluse il cliente del mercoledì dal suo proposito di pensionamento. Non ritoccò mai la cifra del suo amore. Rimase quella che fu la prima volta, ed ora era appena sufficiente per comprare tre rose.
Quell’uomo era un abile imprenditore. Aveva creato una grande catena di pompe funebri e di aziende per la lavorazione dei marmi, specializzate in arte funeraria. Ora la società che portava il suo nome era gestita dai figli e dai nipoti. Uomini senza dignità e senza scrupoli, che l’avevano messo in un angolo e si erano dedicati alla truffa.
Il vecchio cuore dell’uomo non poteva reggere da solo il disonore, perciò aveva deciso di liberarsi del peso condividendo il suo dolore con Adelaide. Il loro incontro clandestino del mercoledì era diventato solo uno scambio di carezze e di confidenze, e il solito non dirsi quanto si erano amati per tutta la vita.
Alla fine lui si alzava e lei lo aiutava a rivestirsi, perché l’uomo non era più in grado di governare a dovere nemmeno il suo enorme corpo. Lasciava le monete sul comodino e se ne andava. Fuori lo attendeva il fedele autista, che da un vita, ogni mercoledì, lo portava fin lì.
Adelaide, all’insaputa dell’uomo, aveva deciso di tessere con cura la vendetta che avrebbe inguaiato tutti coloro che avevano intristito per sempre il cuore del suo eterno amore segreto.
Io ero semplicemente stato usato come mezzo per il raggiungimento dello scopo. Non me la presi con Adelaide, perché me lo disse con il cuore in mano, con semplicità, senza chiedermi di capirla o di perdonarla.
Io giorno dopo scrissi il mio ultimo articolo. Ci misi tutti i nomi e tutti i fatti. Lo consegnai al direttore e mi licenziai.
Qualche settimana dopo tornai al giornale per riscuotere il saldo del mio dovuto. Il caso “casse da morto” aveva già portato molte persone davanti al giudice. Il giornale stava vivendo l’apice della sua gloria.
Il direttore mi riempì di elogi. Voleva imbonirmi per farmi la domanda che da mesi gli rodeva dentro. Alla fine mi chiese che fosse stato il mio informatore per tutto il periodo dell’inchiesta.
“Una puttana di settantasei anni.”
Risposi guardandolo dritto negli occhi.
Me ne andai, ma prima di riprendere il treno che mi avrebbe allontanato per sempre da quella città, passai dal fiorista. Lasciai la busta con dentro i soldi, non li avevo nemmeno contati. Dissi che servivano, finché fossero bastati, per regalare le tre rose rosse quotidiane alla signorina Adelaide.

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