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Albo d'oro
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Categoria NARRATIVA - 2 ° classificata

UNA STORIA D’AMORE ANZIANA – Dionigi Mainini

Era un piccolo bar di città, dalle mura tappezzate di bottiglie dalle etichette ingiallite, una serie di quadretti impolverati e pieni di mare e da un grande specchio alle spalle di Renzo, rotondetto, col sorriso sempre acceso e una vocina non appropriata alla sua figura che ne aumentava la simpatia. D’inverno, in quel piccolo bar, i clienti dovevano darsi il cambio. Più di tre o quattro in piedi ed addossati non ci stavano. D’estate invece era carino sedersi fuori, ai tavolini disposti e racchiusi da una siepe che con l’aiuto del grande tendone da sole, rendeva intimo l’ambiente.

A uno di quei tavolini, ogni giorno, di mattina alle dieci e cinque e di pomeriggio alle sedici e cinque, sedeva Antonio. Lui, gli occhiali, il giornale, il pacchetto di sigarette e l’accendino dorato. Antonio abitava in un monolocale sopra al bar e Renzo lo conosceva bene. Lo sapeva educato e taciturno ma esigente, perciò appena lo vedeva arrivare  subito gli portava la solita tazzina di caffè, non troppo ristretto, non troppo allungato e caldo… raccomandava Antonio, poi, appena giunta la tazzina la copriva col piattino capovolto, batteva la bustina allo spigolo del tavolino sino a rammollire lo zucchero, l’apriva, rimetteva il piattino sotto la tazzina, versava metà bustina, girava il cucchiaino sino a sentire il fondo libero da granelli, sorseggiava, si leccava le labbra e accorreva al pacchetto di sigarette. Ne sfilava una, la massaggiava per tutta la sua lunghezza onde rendere uniforme la consistenza del tabacco, dava fuoco all’accendino dorato e aspirava, con soddisfazione.

Non si beveva un gran caffè in quel bar, ma ad Antonio piaceva restare seduto al solito tavolino per una mezz’oretta a leggere il giornale e ad osservare, di sottecchi,  passanti e clienti. Poi si concedeva quattro passi sino alla piazzetta e lì si divertiva a camminare tra i piccioni per disturbarli e vederli volare o si tratteneva ad ammirare le roselline al negozio di Giacomo, o faceva girotondo attorno all’edicola di Andrea, ripassando le scritte e le foto delle riviste. Finché, annoiato, tornava verso il bar, sbirciava al suo tavolino, entrava e richiudeva il portone e con calma s’incamminava su per le scale sino al terzo piano, senza mai incrociare nessuno quasi fosse solo lui ad abitare in quel vecchio palazzo. Invece, da circa un mese, al di là della porta accanto alla sua c’era Silvia. Anche lei dai capelli bianchi, con l’artrosi alle ginocchia, un cuore stanco e biricchino e tanta solitudine addosso. Piccola e gracile, passava la giornata rileggendo libri editi durante la sua fanciullezza, cuciva e stirava i soliti propri indumenti e, quale passatempo, spiava, da dietro i geranei sul balcone, il suo vicino d’appartamento quand’era seduto, solo e taciturno, al tavolino del bar e quando s’allontanava verso la piazzetta, ammirata dalla signorilità dei suoi movimenti.

Le sarebbe piaciuto scambiar quattro chiacchiere con quel signore dal sorriso benevolo, cui tanto piaceva il caffè. Per giorni aveva meditato come poter provocare un incontro, non il casuale sul pianerottolo o sulle scale, ma un incontro originale, simpatico e quando l’idea era giunta, le era sembrata  sciocca ma riflettendola s’era convinta fosse di sicura efficacia. Così s’era ingegnata a  contare, con l’aiuto d’una sveglietta, quanti minuti occorrevano all’acqua da quando accendeva il fuoco, per fluire dal piano inferiore della caffettiera a quello superiore, trasformata in buon caffè. E quel mattino, facendo affidamento sulla puntualità di Antonio, nel minuto giusto da lei calcolato aveva acceso il fuoco, scostata la porta d’ingresso ed era rimasta nell’attesa d’udirlo armeggiare sulla serratura, proprio mentre il caffè gorgogliava e diffondeva l’aroma dal beccuccio della caffettiera. 

Ad Antonio certi sensi avevano perso in efficacia ma l’odorato e l’udito erano rimasti integri perciò, vista la porta scostata, educato non sbirciò ma scese i gradini assorto nell’ascoltare quel caro gorgoglio e nel gustare quell’aroma tanto diverso da quello della tazzina al bar. Benedetta donna, pensò con l’acquolina in bocca e nel pomeriggio, essendo la porta di Silvia  ancor più scostata, il gorgoglio più accentuato e l’aroma  irresistibile, sbirciò e…  vide uno specchio incorniciato d’oro,  rallegrato da due cartoline e dalla signora della porta accanto intenta a…  una fugace visione che colpi Antonio ancor più dell’aroma del caffè. Resisté alla tentazione di fermarsi e scendendo i gradini cercò di interpretare cosa facesse quella donna con un piccolo ventilatore tra le mani, accanto alla caffettiera fumante. Sembrava volesse indirizzare l’aroma  verso la porta aperta, mentre lui passava… possibile?

Quella domanda se la ripeté seduto al tavolino del bar, mentre alzava la tazzina e la odorava sentendo solo un mesto aroma di caffè, mentre là, sul pianerottolo e anche sulle scale, forse grazie al ventilatore…se la ripetè anche nella piazzetta mentre disturbava i piccioni o davanti alla vetrina di Giacomo rimirando il candore dei propri capelli riflessi nel vetro o alle spalle dell’edicola, sbirciando senza interesse le donnine a seno nudo.

Non era chiara la faccenda ma quella donna incrociata più volte sulle scale, sorridente ed impacciata nel salire i gradini, forse quella donna voleva… offrirgli una tazzina di caffè. Gli era sembrata un po’ vecchia per la verità e al suo saluto, lui aveva risposto con un mugugno ma, quel suo caffè forse meritava d’esser assaggiato. Così il mattino dopo, uscendo come al solito, sentendo il gorgoglio e annusando l’aroma, si decise e bussò alla porta scostata  riuscendo, grazie allo specchio dorato, a vedere Silvia trasalire e subito nascondere sotto un giornale il piccolo ventilatore.

“Chi è?  Prego… prego. Avanti. “ gli venne come risposta, ma lui non si mosse. Attese, che lei spalancasse la porta.

“Buongiorno signora. Mi…”

“Oh è lei. Venga, venga avanti.”

“Non voglio disturbarla…”

“Nessun disturbo, caro il mio signore. Prego. Non stia sulla porta. “

Il gorgoglio del caffè era cessato ma si sentiva un rumore ben strano. Anche Silvia lo avvertì e girandosi vide lo sbattere del giornale sollecitato dal ventilatore.

“Oh scusi. “  esclamò e arrossendo si precipitò a staccare la spina.

“Ho visto la porta aperta e… “

“Ha fatto bene. Si sieda. E’ pronto il caffè. Mi farà compagnia.  “

“No. No. Non volevo disturbarla, solo…”

 “Su, non faccia complimenti. Si sieda. Prima il caffè, poi chiacchieriamo. “

E Antonio si trovò seduto sul divano, in compagnia d’un piccolo orsetto di peluche e di un micino nero che certo si stavano chiedendo chi fosse l’ospite appena giunto, mentre Silvia già versava il caffè nella tazzina… a pera, come i calici dei grandi vini, non come quelle cilindriche, monotone e modeste, del bar. 

“Con lo zucchero vero? La servo io?”

Antonio acconsentì e restò ad osservarla. Il primo cucchiaino poi,  tremolando sulla ciotolina dello zucchero per eliminare quello in eccesso, il secondo… né tanto, né poco, pensò,  compiaciuto.

“Eccola servita. “

Antonio accettò la tazzina, iniziò a ruotare il cucchiaino guardando lei che dopo aver riempita la propria e averla zuccherata cominciò a sorseggiare sorridendo soddisfatta sino a restare silenziosa a guardarlo, in attesa.

Bevve anche lui e, imbarazzato, depose subito la tazzina sul tavolino, raddrizzò il peluche, accarezzò il micio, si alzò dal divano e…“Mi perdoni per il disturbo. ”

“Oh no. Non scappi. Resti qualche minuto.“

“Mi spiace ma devo proprio andare. Voglio però dirle che il suo caffè è… è più buono di quello del bar.  “

“Oh grazie. Allora venga anche nel pomeriggio a prenderlo.”

 “No. No.”

 “La prego. Non mi piace prendere il caffè da sola… l’aspetto. Alle sedici.  “

Antonio non rispose. Raggiunse la porta, si girò, fece un piccolo inchino e  s’affrettò verso la scala. Fatti pochi gradini  si fermò e gustando ancora il buon gusto che allietava la bocca, si accese una sigaretta e soddisfatto, proseguì.

Per strada, subito andò al bar. Avvisò Renzo che non avrebbe bevuto il solito caffè, poi si diresse alla piazzetta e lì vi trascorse due ore, seduto sul bordo dell’aiuola, impegnato a decidere se alle sedici doveva o no tornare da quella donna. Senza riuscirci però, tant’è che non rincasò neppure per il pranzo. Si accontentò d’un panino e d’un calice di vino, da Renzo, al solito tavolino. Sotto lo sguardo di Silvia che  sul balcone, sbirciava dai geranei.

C’era calma quel giorno. I tavolini restavano vuoti e Antonio ne approfittò. Ci rimase sino alle sedici in punto ordinando, uno alla volta,  tra lo stupore di Renzo e la meraviglia di Silvia, altri tre calici di vino così da sentirsi stranamente allegro, spensierato e addirittura spavaldo quando  si ritrovò, alle sedici e cinque, davanti alla porta di Silvia… a bussare.

*  *  *

Divenne una cara abitudine, per entrambi. Silvia si sentiva meno sola, quei due appuntamenti le riempivano la giornata  e  Antonio… beh, lui si sentiva a disagio. Non voleva approfittarsi di quella cara signora, dagli occhi color cielo di novembre, dalle mani affusolate, rugate e prive d’anelli, dalla voce calma e amorevole e dal respiro spesso affannoso, quindi pose una condizione…

“Verrò a bere il caffè e lo pagherò come lo pago al bar.”

Silvia a quelle parole vedendo la sua espressione seria, si scusò ma scoppiò in una risata tanto fragorosa e simpatica che contagiò anche Antonio, sino a farlo ridacchiare.

 “Non sto scherzando, signora. Verrò volentieri ma… “

“Certo. E io accetto. Lei pagherà come al bar ma io non le rilascerò lo scontrino.” confermò Silvia asciugandosi gli occhi e trattenendo a stento il proseguo della risata.

E così funzionò. Con Silvia che ogni volta rideva, mentre nella scatola vuota dei biscotti le monetine cadevano e tintinnavano e Antonio compiaciuto, al vedere quegli occhi color cielo di novembre ogni volta brillare, per merito suo.

Fu un bel periodo per entrambi e le visite andarono allungandosi in minuti. Seduti davanti alle tazzine vuote parlavano del cielo colmo d’azzurro o sporco di nubi, delle notizie della radio, importanti e lontane, oppure osservavano, affiancati sul balcone, i passanti sul marciapiede e una sera persino cenarono alla luce delle candele, col tavolino disposto accanto alla porta del balcone che aperta lasciava entrare la musichetta del bar sottostante e il vocio dei clienti.

*  *  *

Un bel giorno, Antonio ramazzava la sua piccola cucina quando squillò il campanello. Sorpreso accorse alla porta e vi trovò Silvia che tutta eccitata lo prese per mano, obbligandolo a seguirla nel suo appartamento dove, sul tavolo, tutta nera, luccicante e con tanti occhietti verdi accesi, l’aspettava…  una macchina automatica, per il caffè.

“L’ho acquistata con i soldi miei e anche suoi. Adesso deve aiutarmi a farla funzionare. Ecco il libretto delle istruzioni.“ esclamò Silvia battendo le mani. Antonio, sorpreso ed emozionato al vederla tanto eccitata, prese il libretto e cominciò a sfogliarlo, leggendo a voce alta.

Non fù difficile metterla in funzione. Silvia riempì la vaschetta facendo sgorgare l’acqua dal rubinetto in modo tranquillo, per non irritarla, diceva.  Antonio litigò col sacchetto sottovuoto nel tentativo di aprirlo e poi versò i grani che profumati s’assestavano nell’altra vaschetta. Silvia coprì coi rispettivi coperchi le vaschette, collocò la tazzina e mentre Antonio ancora leggeva lei, impaziente, pur timorosa spinse un’occhietto verde e, con sussulto d’entrambi, inizià la macinatura. Rumorosa, esplodente, rovinosa per quei poveri grani, poi regolare, gradevole e…attimi, ed ecco il caffè sgorgare dai due tubicini, spumoso, fumante, allegro, invitante… accolto da entrambi con stupore.

“Prego Silvia. A lei l’onore del primo. “ balbettando, Antonio.

Silvia era emozionata. Le mani le tremolavano nel dosare lo zucchero ma, sorseggiando, fu lei a godersi l’espressione preoccupata e di attesa di Antonio che si rasserenò solo nel vederla schioccare la bocca.

“Io dico di sì.  E’ buono.” declamò Silvia sgranando gli occhi e… “Adesso ne faccio uno per lei. Giù seduto. Dunque…devo solo mettere la tazzina, premere questa lucetta… lei sgrana i chicchi e… miracolo, ecco che arriva con una bella schiuma e un buon aroma… metto lo zucchero, lo giro e… prego, mio caro Antonio. “

Mio caro Antonio. Era la prima volta. L’aggiunta di quel mio e di quel caro, riempì Antonio di emozione tanto che si permise di trattenere tra la propria  la sua mano, mentre sorseggiava dalla tazzina. Silvia lo lasciò fare, attendendo il responso e appena Antonio prese a sorridere… “Buono vero? Io ne bevo subito un altro. Lo vuoi anche tu?”

*  *  *

Si sa la felicità, in particolare quella umile, è difficile da mantenere. Dura poco,  un soffio di vita o, un sorso di caffè. Infatti… Antonio quel giorno procedeva sul marciapiede con un bel mazzo di roselline rosse in una mano e nell’altra un grosso sacchetto sigillato che conteneva un mucchio di grani di caffè. Sorrideva, perché era in orario. Per le dieci puntuale avrebbe bussato a Silvia e le avrebbe fatto la sorpresa ma, ad un certo punto, sfortuna, destino, noncuranza, quella di controllare ove si mettono i piedi… scivolò e cadde dando una tal testata sul marciapiedi da addormentarsi e riaprire gli occhi sei giorni dopo in un lettino d’ospedale, con un tubetto che collegava il suo braccio all’ampolla appesa sul trespolo.

Stentava a rispondere, alle infermiere che lo interpellavano. Non riusciva a connettere e ci vollero altri sette giorni allorché, guardando il mazzo di roselline posto sul davanzale della finestra, cominciasse a ricordare e a preoccuparsi… forse Silvia lo stava ancora aspettando e… dov’era il sacchetto dei grani di caffè?

Timido, non fece domande. Si limitò ad assecondare dottori e infermiere sino a convincerli, tre giorni dopo, che poteva rincasare da solo. E così fece. In pullman, trepidante e col mazzo di roselline ormai sfiorite per mano, ansioso d’arrivare e scusarsi con Silvia per il ritardo. Nella piazzetta, sceso dal pulman, non guardò la vetrina di Giacomo, neppure l’edicola di Andrea, evitò persino il nugolo di piccioni, si diresse al portone, entrò e s’affrettò sulle scale. Giunto davanti alla porta di Silvia attese che il respiro si calmasse poi, bussò.

“Avanti. “ gli rispose una voce maschile e Antonio, sorpreso, abbassò la maniglia e aprì la porta. Al di là l’aspettavano due signori, uno sulla scala che pennellava e l’altro ginocchioni  sul pavimento tutto ricoperto da giornali.

 “E Silvia? “ balbettò Antonio.

“Silvia…quale Silvia?”

Non sapevano nulla di Silvia i due imbianchini e Antonio si scusò, richiuse la porta e deluso, si diresse alla propria. Lì, l’attendeva un grosso scatolone su cui spiccava un biglietto che in bella calligrafia riportava: “Per Antonio.”

Sorpreso aprì la porta, strisciò lo scatolone all’interno, appoggiò il fascio di roselline sul divanetto, richiuse la porta , rilesse il biglietto e, appena scostato il coperchio dello scatolone, riconobbe…la macchina del caffè di Silvia, la piccola moka e il piccolo ventilatore.

“Ma che è successo e…dov’è Silvia?” balbettò Antonio sentendo un grosso nodo in gola.

*  *  *

Sino a sera e per tutto il giorno dopo, Antonio restò dietro la sua porta a sbirciare dall’occhiello quella di Silvia. Sperava di vederla comparire o almeno di riuscire a capire cos’era successo, ma non ci riuscì. Perché non osò fare domande, perché nessuno gli parlò, perché…due giorni dopo giunse una coppia di signori con due bimbi, a stabilirsi nell’appartamento di Silvia.

Sconsolato, abbandonò l’occhiello e decise di restare in attesa, che qualcuno suonasse il suo campanello.

Solo tre giorni dopo riprese a frequentare la piazzetta ma più non faceva il girotondo attorno all’edicola. Lento imboccava la via che portava alla Stazione, faceva il giro dell’isolato e ricompariva nella piazzetta sbucando accanto alla vetrina di Giacomo. Lì non sostava ad odorare le roselline, proseguiva, imboccava la via verso il Municipio, faceva il giro dell’isolato e ricompariva,  a testa china e radente al muro. Non attraversava la piazzetta, non infastidiva i piccioni, neppure sbirciava al suo tavolino, al bar di Renzo…  spariva, oltre il portone. Arrancava sulle scale, sorrideva alla porta di Silvia, entrava nel proprio appartamento e  gli occhi andavano subito alla macchina del caffè. Era sulla libreria. Le aveva fatto spazio, eliminando libri vecchi letti e riletti.

Più non funzionava, ma ogni giorno la spolverava e l’accarezzava.

Usava la moka. Ne veniva un caffè con poca schiuma ma sorseggiandolo, Antonio sorrideva e s’asciugava gli occhi. Poi la lavava, l’asciugava, la riponeva sulla mensola, accanto al piccolo ventilatore e all’involucro che, dimenticato, nascondeva un mazzo di roselline rosse, insecchite. Poi si accomodava sul divano e riprendeva il suo bellissimo sogno, fatto di buon caffè e amore.

 

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