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Albo d'oro
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Categoria NARRATIVA - 3 ° classificata

UNA STORIA SEMPLICE - Mauro Ursino

Gertrude si sentiva il cuore pesante quando uscì di casa quel pomeriggio, ma era ben decisa a portare a compimento il suo insolito proposito. Quel proposito la ossessionava da diversi giorni e la notte non la lasciava riposare…
“Non devi farti impaurire” si disse. “Devi pensare che fra poco sarà tutto finito… cesserà questo senso di desolazione e non ci sarà più nulla per cui darsi pena”.
Nella luce calma del pomeriggio avanzò a piccoli passi, borbottando fra sé e sé, diretta verso il canale. Le gambe le dolevano, il respiro si faceva affannoso ed il vento le scarmigliava i capelli bianchi, spargendoli in lunghe ciocche sul volto disegnato dalla rughe. A quell’ora nelle strade assolate non c’era nessuno e Gertrude potè arrivare fino al canale senza essere vista… “Sono già un fantasma”, pensò per un attimo, e a questo pensiero una grande tristezza le invase l’animo.
Nel canale le acque scorrevano scure, trascinate da una corrente resa tumultuosa dall’apporto delle piogge recenti. Sporgendosi dal basso parapetto Gertrude riuscì a scorgere le sua immagine tremula riflessa sul fondo. Sembrava già annegata, laggiù, sott’acqua. Fra i ciottoli rotondi, con gli occhi spalancati, l’espressione severa ed il volto pallido che la fissava sgomenta.
“Non devi avere paura”, pensò parlando a se stessa. “Il salto è molto grande. Forse basterà il colpo sulle pietre per farti perdere i sensi… e poi l’acqua farà il resto. Vedrai piccola mia, non soffrirai e in pochi minuti sarà tutto finito”.
Da molto tempo Gertrude aveva preso l’abitudine di parlare da sola con se stessa, come una sorella maggiore parla alla sorella più piccola per aiutarla e consolarla. Certe volte, nell’agitazione repentina e nell’angoscia, urlava a voce alta e faceva dei gesti convulsi con le mani; si accorgeva del suo comportamento soltanto quando vedeva i passanti che la fissavano con un’espressione accigliata.
Si guardò ancora una volta intorno. Lungo l’argine del canale non c’era nessuno; si sentiva soltanto il frinire delle cicale che riempiva l’aria di uno sfrigolio monotono, il gorgoglio placido delle acque ed il mormorio del vento fra i canneti. Lontano le parve di percepire un rumore di passi.
“Devi affrettarti”, pensò, “se arriva qualcuno e ti vede diventa un brutto lavoro… proprio un brutto lavoro…”. Si sporse sul parapetto, cercando di darsi coraggio e di fare avanzare il baricentro in avanti; aveva l’intenzione di chiudere gli occhi e di lasciarsi scivolare in fuori ma, improvvisamente, alla vista dei gorghi sotto di lei, la paura la avvinse e serrò le mani alla ringhiera, come un animale spaventato. “Avanti”, mormorò, “non fare la sciocca… un attimo e sarà tutto finito… avanti sciocchina”. Ma più passava il tempo, più le sue mani si avvinghiavano alla ringhiera con un gesto convulso, il corpo si irrigidiva e cominciò a tremare…
Rimase in questa posizione per alcuni minuti, quasi senza muoversi, come fosse divenuta sale, finché un suono di passi, ormai vicini, la distolse. Staccò le mani dalla ringhiera e si guardò intorno. Attraverso i prati ingialliti, nella luce declinante del pomeriggio, avanzava un uomo dal volto rubizzo, vestito secondo lo stile dei contadini, e portava un sacco su una spalla. Gertrude capì che era ormai troppo tardi per mettere in atto il suo proposito scellerato e che avrebbe dovuto rimandare tutto all’indomani.
“Stupida sciocca”, borbottò fra i denti “Stupida sciocchina paurosa. Hai visto che cos’hai fatto? Hai perso il momento propizio. Fra poco arriverà gente e dovrai aspettare fino a domani… e allora stanotte non ti lamentare e non piangere sai”.
L’uomo sembrò contrariato nel vedere Gertrude appoggiata al parapetto del canale, ma non sospettò neppure per un secondo il motivo per cui lei fosse lì, né quali pensieri le si aggrovigliassero nel cuore. Quando le fu vicino, a meno di cinque metri di distanza, Gertrude si accorse che dal sacco proveniva un rumore tenue ma chiaramente percepibile, come se nel profondo si agitasse qualcosa di vivo.
- Che cos’hai lì dentro? – esclamò, staccando dalla ringhiera la mano ancora tremante, sulla cui pelle risaltavano delle larghe macchie brune, e tendendola verso di lui – Sento miagolare… Cosa sei venuto a fare disgraziato? –
- Credevo che a quest’ora non ci fosse nessuno lungo l’argine – rispose l’uomo – Allontanati, vecchia. Devo compiere un’azione cattiva –
Gertrude fissò l’uomo con sgomento.
- Disgraziato! – urlò, fissando su di lui il suo mento appuntito – Non ti vergogni ad uccidere dei gattini?... Non avete cuore voi uomini? –
L’uomo appoggiò il sacco per terra.
- Non possiamo più mantenerli – disse – E se li lasciassimo andare liberi morirebbero in pochi giorni… Tanto vale annegarli… –
Gertrude aprì il sacco e dentro vi scorse quattro gattini, dell’età di circa un mese, che si divincolavano e spingevano con le gambe posteriori. Otto occhi azzurri la fissarono.
- Dalli a me – disse spingendo in avanti il volto appuntito, come a sfidare l’uomo – Li prendo io, così ti libero da un’azione tanto infame –
Pronunciò queste parole senza quasi riflettere e le sembrò che non fosse stata lei a parlare, ma che, attraverso le sue labbra, si fosse manifestata un’altra persona, una persona buona e determinata rimasta finora nascosta.
L’uomo la guardò meravigliato.
- Ma sei davvero sicura di quello che stai dicendo, vecchia? Cosa te ne fai di quattro gatti? –
- Io li posso mantenere – rispose Gertrude – Ho la mia pensione. E con me staranno bene. Mi faranno compagnia –
L’uomo borbottò qualcosa tra i denti, come se si fosse trovato di fronte un evento meraviglioso e per lui incomprensibile, e per qualche secondo rimase stupefatto a guardare il volto rugoso della vecchia su cui brillava una luce acuta. Alla fine accondiscese a lasciarle il sacco, dopo averlo appena arrotolato sulla cima.
- Ecco, portateli pura a casa, vecchia. Te li affido… In fondo, mi liberi da un’azione indegna… Mi hai tolto un peso dal cuore –
- Con me staranno da nababbi – disse lei sorridendo e, stringendo gli occhi piccoli da cui scivolava la luce, prese il sacco su di sé…

Gertrude tornava verso casa affrettando il passo, ma sentiva le gambe stanche e covava una profonda agitazione. Non capiva perché avesse deciso di prendere su di sé questo fardello e quali potessero essere le conseguenze della sua scelta. Sentiva i gattini miagolare nel sacco e muoversi con dei brevi scatti e non vedeva l’ora di farli uscire dal quella prigione e lasciarli vagare per casa. “Ma che cosa hai fatto?” pensava intanto fra sé “Perché ti sei gettata in un’avventura simile? Adesso, per quindici anni, ti dovrai prendere cura di loro. Sciocca! Non riesci neanche a prenderti cura di te stessa, e pretendi di occuparti di loro!?”.
Camminando si fermava di tanto in tanto a riprendere fiato, appoggiava il sacco per terra, e ne apriva uno spiraglio per lasciare che gli animali ricevessero aria e per sbirciarvi dentro. Subito, alla vista della luce, l’agitazione dentro il sacco cresceva e quei piccoli occhi la fissavano con inquietudine e con una tenue speranza. Intenerita Gertrude faceva scivolare una mano all’interno e li accarezzava, uno per uno. Sentiva il pelo morbido, il calore dei corpi, il respiro frenetico, il muso umido dalla lingua vischiosa. “Siamo quasi arrivati, piccoli” mormorava “fra poco vedrete la vostra nuova dimora”.
Prima di arrivare a casa si fermò dal macellaio e acquistò delle polpette. Era la prima volta, dopo tanti anni, che aveva qualcuno di cui prendersi cura ed era la prima volta che qualcuno si aspettava delle cure da lei.

Era calata la notte estiva e Gertrude sedeva nella poltrona davanti alla finestra e contemplava il cielo che si faceva scuro: Venere, la Luna, la costellazione del Cigno, la via Lattea, la costellazione dell’Aquila… Aveva appreso quei nomi e quelle forme da bambina, quasi settant’anni prima e, da allora, non le aveva mai più dimenticate. Le contemplò ancora una volta con lo stesso candore di un tempo.
Fino a poche ore prima era ben decisa a recarsi al banchetto con la morte; invece adesso, avvolta dal cauto tepore della notte, ascoltava il verso dei grilli sui prati e la voce di un uomo che cantava fra i campi neri. Quei suoni la riportavano alla sua fanciullezza. In questa vastità si sentiva serena. I gattini si erano addormentati nella cesta dopo un pasto gioioso ed il mondo sembrava assopito in una pace fragile.
Gertrude si mise a riflettere. Aveva settantaquattro anni. Se avesse vissuto altri dieci anni, altri quindici anni, avrebbe visto i gattini crescere e poi invecchiare ed avrebbero marciato insieme fino all’estremo limite del tempo… Allungò la mano e accarezzò la massa morbida e pelosa alla sua sinistra. Loro miagolarono, si stirarono e quattro teste dagli occhi meravigliati si proteso dalla cesta per guardare fuori. Sentì le loro unghie che si avventavano contro il tessuto della vestaglia; poi li sentì salire lungo le sue gambe, a piccoli scatti, con un sforzo infantile ma determinato. Un gattino le si arrampicò su una spalla, un altro le si accovacciò lungo la piega del collo, gli altri si sistemarono sul seno. Ben presto si addormentarono respirando con le labbra tiepide. Gertrude non si mosse per non svegliarli.
Da anni non sentiva degli esseri così vivi, così caldi, che le premessero il corpo e si strofinassero contro di lei. Guardò le creature dormienti sul suo grembo. Erano belle, di una bellezza muta, fatta di semplicità e di equilibrio, realizzata con gesti ripetuti, ma convincenti: senza parole, senza pensieri, senza simboli, senza ammiccamenti, senza una ragione che non fosse la pura dolcezza dell’esserci… Ed erano belli gli alberi, davanti alla finestra. Ed era bello il cielo, profumato per le prime fioriture dei ciliegi.
Gertrude chiuse gli occhi. Adesso riposavano tutti, cullati dalla voce profonda della notte, schegge insignificanti del tempo che trascorre, e si facevano compagnia. Nel dormiveglia assaporò il profumo dei prati, ascoltò il fruscio delle foglie sui rami e si intenerì al suono delle campane della chiesa del borgo. Quindi si assopì serena, ma vigile… ogni tanto, risvegliandosi, ascoltava un gattino muoversi sul suo grembo e lo accarezzava. Una coda le solleticò le labbra e per il solletico le venne da ridere.
E allora rise, con la sua bocca sdentata.

 

 

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